La variegata reazione umana al sentirsi sotto l’attacco di un qualche pericolo, come il Coronavirus, fa pensare. In questi giorni, quando seguiamo l’andamento della situazione attraverso i programmi, i quotidiani, la tv, la gente che ancora si confronta nelle strade, sembriamo in grado di passare dalla concettualizzazione della ipertrasparenza mediatica sulle infezioni da Covid-19 in Italia, che di per sé, inevitabilmente, rischia di alimentare la paura collettiva, al diniego della serietà del virus, probabilmente per sentirci psicologicamente meno indifesi nonché per la necessità di riprendere le attività produttive, non soccombere sul piano economico e percepirci meno passivi nei confronti di ciò che sta avvenendo.
Due posizioni all’estremo.
Immagino che tutti noi abbiamo avvertito in questi giorni polarizzazioni o transizioni di questo tipo; posizioni che si muovono dal vanto dell’informazione sincera e responsabile, ma poi anche ansiosa e angosciata oltre misura, alle spallucce deridenti chi invece si mostra “troppo” preoccupato.
Il virus che sta mettendo a soqquadro la vita di molte migliaia di persone nel mondo per la sua veloce e acuta trasmissibilità, per i dati di mortalità, che per quanto non elevatissimi comunque esistono e bastano per sollecitare primordiali angosce di morte dentro di noi, per lo stravolgere delle nostre abitudini sul piano relazionale e per il mettere in seria difficoltà aziende sanitarie, così come quelle produttive, commerciali, turistiche, etc., mette in luce la nostra vulnerabilità umana, intesa non soltanto in senso fisico, riguardo la resistenza biologica che possiamo sostenere contro un male che ci ha colti impreparati, ma soprattutto quella esistenziale, psichica, morale.
Xenofobia, corse agli accaparramenti ai supermercati, distinzioni etniche se non anche anagrafiche da un lato, e banalizzazione, senso di superiorità e ingenuità superficiale con minimizzazione e derisione delle umane paure, dall’altro, non sono che le due facce della stessa medaglia: meccanismi difensivi che cercano di porci al riparo dai sentimenti negativi che risuonano nel profondo di noi.
Il rischio è in ogni caso di perdere l’aderenza con la realtà, e con ciò perdere i nostri strumenti di gestione della realtà stessa. Perdere la trama di senso che ogni giorno essa ci fornisce per restare dentro un mondo condiviso, che dona significato ai nostri sé e ai nostri legami interumani, alle nostre azioni.
Il prevalere della parte irrazionale delle nostre interiorità affettive rischia di confondere le nostre menti, di deprivarle di quelle risorse di cui invece proprio di fronte al pericolo abbiamo più bisogno.
La realtà è che il virus esiste, colpisce indiscriminatamente dalla etnia, dalle età e dai luoghi che scopriamo ogni giorno troppo prossimi e ci impegna alla responsabilità.
L’agire responsabilmente implica il senso della pluralità oltre che di se stessi, ed è un processo faticoso, non leggero, perché significa considerare le questioni da differenti prospettive e significati, contemplare nelle nostre riflessioni sia il particolare che il generale, avere una visione più ampia anche dell’azione stessa e delle sue conseguenze.
L’agire responsabilmente implica una rinuncia alla delega totale all’altro, costringe a occuparsi della cosa, a non voltare lo sguardo, a cercare di non essere superficiale né allarmista, meno impulsivo in una o nell’altra direzione, ma orientato a una riflessione matura per operare scelte sufficientemente sensate, misurate, con un senso realistico il più adeguato possibile.
Sembra davvero un atto difficile, quando si avverte un inesorabile pericolo accanto o fra noi; perché i nostri di dentro parlano, si muovono, si agitano, sperimentano confusione e paura, ribellione e ricerca di sollievo, ed è naturale che accada.
Ciò mi ha portato alla mente il pensiero di un’autrice che stimo molto, Hannah Arendt, filosofa del ‘900, che in alcune sue riflessioni sul soggetto morale accenna all’agire responsabilmente come alla facoltà di decidersi per il bene grazie a una apertura emotiva condotta con accortezza alla riflessione, riconoscendo dunque uno spessore etico alle emozioni umane che implicano sia un volgersi sensibilmente all’altro, sia il dare una risposta.
Due elementi non trascurabili nei momenti di bisogno: l’empatia, la sensibilità interumana e la necessità di attivarsi e trovare risposte.
Per questa ragione, trovo che il richiamo alla saggezza delle emozioni, come parte delle questioni morali e della capacità riflessiva dell’essere umano, possa forse offrirci una via per affrontare i sentimenti d'impotenza e timore di questi giorni, e mi sembra interessante ripensarci in un momento in cui è elevato il rischio di posizioni estreme e polarizzate che possono farci perdere di vista il senso etico e la giusta misura delle nostre azioni, di noi e degli altri.
Un richiamo al buon senso che è fatto di umanità, relazione con l’altro, capacità di prendersi cura di chi è maggiormente bisognoso o esposto, come i nostri anziani o le persone che risultano più fisicamente e, perché no, psichicamente vulnerabili al virus.
Un ricorso alla soggettività etica della risposta alle situazioni critiche, e dunque anche a una politica etica che sappia porsi contro la deriva dell’indifferenza, o dell’egocentrismo o della superficialità, laddove l’impulsività e, alla medesima stregua, la rigidità non favoriscono né solidarietà, né una buona occasione di pensiero, né un agire responsabile, fattori che invece possono darci coraggio e speranza quali motori di una acquisizione di senso della nostra umana condizione.
Patrizia Giannini, Torino, 27/2/2020
Due posizioni all’estremo.
Immagino che tutti noi abbiamo avvertito in questi giorni polarizzazioni o transizioni di questo tipo; posizioni che si muovono dal vanto dell’informazione sincera e responsabile, ma poi anche ansiosa e angosciata oltre misura, alle spallucce deridenti chi invece si mostra “troppo” preoccupato.
Il virus che sta mettendo a soqquadro la vita di molte migliaia di persone nel mondo per la sua veloce e acuta trasmissibilità, per i dati di mortalità, che per quanto non elevatissimi comunque esistono e bastano per sollecitare primordiali angosce di morte dentro di noi, per lo stravolgere delle nostre abitudini sul piano relazionale e per il mettere in seria difficoltà aziende sanitarie, così come quelle produttive, commerciali, turistiche, etc., mette in luce la nostra vulnerabilità umana, intesa non soltanto in senso fisico, riguardo la resistenza biologica che possiamo sostenere contro un male che ci ha colti impreparati, ma soprattutto quella esistenziale, psichica, morale.
Xenofobia, corse agli accaparramenti ai supermercati, distinzioni etniche se non anche anagrafiche da un lato, e banalizzazione, senso di superiorità e ingenuità superficiale con minimizzazione e derisione delle umane paure, dall’altro, non sono che le due facce della stessa medaglia: meccanismi difensivi che cercano di porci al riparo dai sentimenti negativi che risuonano nel profondo di noi.
Il rischio è in ogni caso di perdere l’aderenza con la realtà, e con ciò perdere i nostri strumenti di gestione della realtà stessa. Perdere la trama di senso che ogni giorno essa ci fornisce per restare dentro un mondo condiviso, che dona significato ai nostri sé e ai nostri legami interumani, alle nostre azioni.
Il prevalere della parte irrazionale delle nostre interiorità affettive rischia di confondere le nostre menti, di deprivarle di quelle risorse di cui invece proprio di fronte al pericolo abbiamo più bisogno.
La realtà è che il virus esiste, colpisce indiscriminatamente dalla etnia, dalle età e dai luoghi che scopriamo ogni giorno troppo prossimi e ci impegna alla responsabilità.
L’agire responsabilmente implica il senso della pluralità oltre che di se stessi, ed è un processo faticoso, non leggero, perché significa considerare le questioni da differenti prospettive e significati, contemplare nelle nostre riflessioni sia il particolare che il generale, avere una visione più ampia anche dell’azione stessa e delle sue conseguenze.
L’agire responsabilmente implica una rinuncia alla delega totale all’altro, costringe a occuparsi della cosa, a non voltare lo sguardo, a cercare di non essere superficiale né allarmista, meno impulsivo in una o nell’altra direzione, ma orientato a una riflessione matura per operare scelte sufficientemente sensate, misurate, con un senso realistico il più adeguato possibile.
Sembra davvero un atto difficile, quando si avverte un inesorabile pericolo accanto o fra noi; perché i nostri di dentro parlano, si muovono, si agitano, sperimentano confusione e paura, ribellione e ricerca di sollievo, ed è naturale che accada.
Ciò mi ha portato alla mente il pensiero di un’autrice che stimo molto, Hannah Arendt, filosofa del ‘900, che in alcune sue riflessioni sul soggetto morale accenna all’agire responsabilmente come alla facoltà di decidersi per il bene grazie a una apertura emotiva condotta con accortezza alla riflessione, riconoscendo dunque uno spessore etico alle emozioni umane che implicano sia un volgersi sensibilmente all’altro, sia il dare una risposta.
Due elementi non trascurabili nei momenti di bisogno: l’empatia, la sensibilità interumana e la necessità di attivarsi e trovare risposte.
Per questa ragione, trovo che il richiamo alla saggezza delle emozioni, come parte delle questioni morali e della capacità riflessiva dell’essere umano, possa forse offrirci una via per affrontare i sentimenti d'impotenza e timore di questi giorni, e mi sembra interessante ripensarci in un momento in cui è elevato il rischio di posizioni estreme e polarizzate che possono farci perdere di vista il senso etico e la giusta misura delle nostre azioni, di noi e degli altri.
Un richiamo al buon senso che è fatto di umanità, relazione con l’altro, capacità di prendersi cura di chi è maggiormente bisognoso o esposto, come i nostri anziani o le persone che risultano più fisicamente e, perché no, psichicamente vulnerabili al virus.
Un ricorso alla soggettività etica della risposta alle situazioni critiche, e dunque anche a una politica etica che sappia porsi contro la deriva dell’indifferenza, o dell’egocentrismo o della superficialità, laddove l’impulsività e, alla medesima stregua, la rigidità non favoriscono né solidarietà, né una buona occasione di pensiero, né un agire responsabile, fattori che invece possono darci coraggio e speranza quali motori di una acquisizione di senso della nostra umana condizione.
Patrizia Giannini, Torino, 27/2/2020